giovedì 2 giugno 2016

Giorgio Albertazzi: "Della morte, mi affascina l'umorismo"


 Torno al blog dopo un anno. A un anno esatto da questa intervista. A pochi giorni dalla scomparsa di uno dei grandi protagonisti del teatro italiano. Spero di fare la cosa giusta.
Ha un occhio accesso su un viso ancora magro. Il carattere sembra più mite di un tempo. Diciamo che è mite e sanguigno insieme. Con una delicatezza tutta sua che però, lui dice, è il frutto di un lavoro: «La cura della forma me la insegnò tanti anni fa Visconti». Giorgio Albertazzi ha 92 anni. Non solo recita ancora, ma si prepara a fare anche un programma su Rai1, Vita, morte e miracoli: «Se ne sentirà parlare, ci può giurare».  In questi giorni, è tenuto sotto sequestro dai fan, donne soprattutto: «Esagerano, veramente, non sono un mito, non mi sono mai sentito così, mi imbarazza». L’altra sera una signora gli ha detto: «Vede, maestro, io adesso vorrei spogliarmi qui nuda per lei». Era presente anche la direttrice del Teatro Ghione di Roma (Roberta Blasi) . E lui, per tutta risposta: «Grazie». E subito dopo: «Vedremo». Forse è persino un poco timido, anche se ha giocato tutta la vita sulla fama di seduttore, però più Casanova  (che le donne le ama) che Don Giovanni (il quale invece non le ama per niente). Con se stesso è spietato. Lo si doveva capire già quando mandò alle stampe un’autobiografia dal titolo: Un perdente di successo.  «Io mi percepisco come inadeguato. La gente mi vede colto e profondo. Magari ogni tanto riesco ad essere anche profondo, ma io sono un superficiale». Sorride, ma non in quel modo con cui sorridono sempre i divi dopo che l’hanno sparata grossa, come a dire: «Hai visto cosa ho detto?». Lui, semplicemente, dice. Così come recita. Anche quando recita, dice, e gli attori giovani accanto a lui ancora si stupiscono come diavolo faccia a pronunciare: «Esigo la mia libbra di carne» in questo modo cosìdrammaticamente semplice. In scena, Albertazzi, è l’ebreo Shylock nel Mercante di Venezia (il ruolo di Antonio lo interpreta Franco Castellano: lo spettacolo, per la regia di GiancarloMarinelli,  è in scena al Ghione fino all’8 febbraio, e negli ultimi giorni sono previste repliche per non udenti e non vedenti con interpreti che traducono da un linguaggio all’altro). Ci parliamo nel foyer del teatro. Albertazzi ha chiesto un bicchiere di vino rosso: «Strano, non bevo mai il rosso, non mi piace neanche troppo il vino, semmai lo champagne. Chissà come mi è venuto in mente oggi di chiedere il rosso». Così anch’io chiedo un bicchiere di vino rosso. In fondo, fuori ci sono zero gradi.

Albertazzi, lei ritorna a Shakespeare, da cui non si è mai veramente separato: debuttò in teatro nel 1949 con “Troilo e Cressida”, regia di Visconti. E qualche anno dopo lei è stato premiato al Royal National Theatre come unico attore shakespeariano di lingua non inglese.  Cosa cerca attraverso di lui?

Non sono solo io ossessionato da Sha-kespeare. E’ l’autore più rappresentato al mondo, non per caso. Passando il tempo, scopri molte cose nuove, alcune di queste fanno parte del clima culturale dell’epoca, per esempio tutta la favolistica che c’è dentro certi testi di Shakespeare: nel Sogno di una notte di mezza estate, ma anche nel Mercante di Venezia, ad un certo punto spunta fuori la favola, appaiono le fate, le principesse. Sono figure che escono fuori dalla novellistica greco-latina a cui si è ispirato. E mi affascina anche questa questione dell’identità ambigua di Shakespeare, si è scritto molto della sua presunta italianità. In effetti l’Italia è molto presente nelle sue opere: Il mercante di Venezia, I due gentiluomini di Verona, Romeo e Giulietta…

Nel suo libro autobiografico, ”Il mio ricordo degli eterni”, il fisolofo Emanuele Severino compone un trattato sulla memoria. Convinto che ricordare sia ”errare”, nel doppio senso di perdersi e di sbagliare. Perché ciò che ricordiamo è impreciso, oscuro. Quali sono i luoghi in cui la sua mente torna più volentieri?

A proposito di questo, adesso sto preparando un programma per la Rai, si intitolerà Vita, morte e miracoli. Se ne accorgerà quando si farà. Già l’anno scorso, quando ho partecipato a Ballando con le stelle, ho buttato una specie di bomba. E stavolta sarà una bomba moltiplicata per dieci. E così sono costretto a lavorare sulla memoria, che nel mio caso è buona, ma sì, ha ragione Severino, degli eventi ricordiamo cose particolari, non quadri interi.La memoria è importante. Mi fanno molta tenerezza le persone senza memoria, sono così smarrite, fragili, è come se avessero perso se stesse. Vivono in un non tempo. Capisci come la memoria sia una invenzione nostra però scandisce il rapporto tra il giorno e la notte, rende significanti gli anni, la temperatura del mondo. Quello che ricordiamo è presente, si fa presente. Ma se c’è un popolo che è volto più al passato che al presente, questo è il popolo italiano. Non lo dico solo io.

Come se lo spiega?

Me lo spiego con la classicità. La nascita della cultura è qui, è nel Mediterraneo, è in Grecia.

La Grecia sembra di nuovo al centro del mondo. Tsipras sta terremotando la vecchia Europa.

Tsipras mi piace, ma non sono sicuro che ce la farà. Bisogna vedere quanti nemici ha dentro il suo stesso partito. Il problema storico della sinistra è la suddivisione in tante anime diverse che si fanno la guerra tra di loro.

Ma lui si è alleato con un partito di estrema destra.

Ha fatto bene. Come ha fatto bene Renzi a scompaginare le carte.

Bertinotti sostiene che il conflitto oggi non è certo tra sinistra e destra, ma tra alto e basso.

Penso sia vero. Comunque in Italia lasinistra e la destra non sono piùquelle di un tempo. Bisogne-rebbe chiamarle diversa-mente.

Lei è considerato un uomo di destra.

Sì, ma a torto, perché io non sono un uomo di destra. Indubbiamente ho un passato militare di destra, che adesso non rivendico. Avevo 19 anni quando sono entrato nella Repubblica di Salò. Comunque, anche allora ero più anarchico che fascista: andavo alle adunate, mi mettevo il maglione bianco anziché nero…

Quanto le è costata quella scelta?

Se non fossi stato forte artisticamente, ci sarei finito dentro per sempre. Nella cultura, è impossibile essere di destra. Quando nel dopoguerra si sono divisi i poteri in Italia, quello economico se l’è preso la Dc, e quello culturale è andato alla sinistra. E lì è stata dura, non solo per me. Anche uno come Zeffirelli l’ha pagata cara. Ha incontrato moltissimi ostacoli, anche se è internazionalmente noto, e la cosa non si è placata neanche adesso. Questo è terribile. Perché sono comportamenti che si basavo sul sentimento di vendetta, su una specie di rancoroso pensare nei confronti di chi non la pensa come te o addirittura si suppone che non la pensi come te. E siccome la storia la scrivono i vinti, cioè voglio dire i vincitori...

Un bel lapsus, per uno che la sua autobiografia l’ha voluta intitolare “Un perdente di successo”.

Spesso la storia è superficiale. E le ragioni dei vinti sono molto più importanti. A me interessano in fondo solo quelle, le ragioni di chi ha perso. Per quanto riguarda me, io sono abituato a questa onda di opposizioni feroci e di entusiasmi altrettanto sconsiderati nei miei confronti. Adesso per esempio ritengo che si dicano cose su di me anche eccessive, nel bene. Troppo, veramente troppo. Non si possono dire cose come: lei mi ha cambiato la vita, lei è un mito… A volte mi imbarazzano.

Lei da ragazzo ce l’aveva un mito?

Non mi pare.

Neanche Luchino Visconti?

Luchino è stato più indirettamente maestro. I suoi spettacoli sono stati per me un grande insegnamento. Ma la nostra relazionepersonale era talmente amichevole che non posso dire che fosse per me un mito. E’ stato semmai un maestro di vita… Da Luchino imparavo delle cose che non sospettavo e che cerco ora di trasmettere anche io agli altri: “l’etichetta”, un certo modo di stare a tavola. Non che io fossi maleducato, però un po’ selvaggio si, e da lui ho imparato che i calzini corti non si devono portare.

E’ vera la storia del bacio? Come accadde?

Come accadono queste cose tra una donna e un uomo? Non si sa. E così è accaduto che una volta io e Luchino ci baciammo. E siccome io tendo a dire tutto, ho raccontato anche quello. Ma fu un episodio isolato. Diciamo che lui era un tipo possessivo, tendeva ad entrare nella mia vita. Quando ho lasciato Bianca (Toccafondi), mi telefonò per dirmi: «Come ti sei permesso di lasciare Bianchina?». E’ come Antonio nel Mercante di Venezia. Ama questo ragazzo, Bassanio, però quando il ragazzo si innamora di Porzia lui gli procura i soldi per realizzare il suo sogno. C’è un modo di amare che significa occuparsi della vita degli altri. E’ una forma non di frociaggine, ma di esisetnza direi wildiana. E’ una forma d’amore piena di umorismo, di generosità.

E’ vero che a un certo punto un po’ di fan volevano candidarla come presidente dela Repubblica?

Sì, mi aveva  telefonato un signore che era rappresentante di un gruppo di trecento persone per darmi quest’annunncio e io ho risposto: «Non vi permettete! Non ci pensate nemmeno!». Per fortuna sono stati buoni.

Mattarella le piace?

Volevo un giurista, e  Mattarella mi sembra una buona scelta.  Mi piace come figura istituzionale. Un presidente deve avere a che fare con la magistratura, con la giustizia, deve avere un forte senso dello Stato.  E lui sembra avere tutte queste cose. A me piaceva anche Amato, ma era troppo scavezzacollo.

E come ha vissuto i nove anni di Giorgio Napolitano, che è anche un suo coetaneo?

Veramente è più “giovane” di due anni! Lo conosco anche personalmente. E’ un uomo in gamba. Bisogna distinguere tra presidenti interventisti e avventurosi come Pertini, che ha avuto un forte impatto col popolo italiano, e presidenti come Napolitano che hanno fatto delle trasformazioni: lui è passato da un comunismo radicale a una coscienza meno partitica.

Quali giornali legge la mattina?

Il Corriere della Sera, La Repubblica e Il Foglio, che considero il più bel giornale italiano, e un giornale locale della città in cui mi trovo (se sono a Napoli Il Mattino, se mi trovo a Firenze La Nazione, a Torino La Stampa)… Ma prima di tutti leggo La Gazzettadello Sport.

Tifoso sempre della Fiorentina?

Certo! Ma sono tifoso del calcio in generale. Ci capisco parecchio sa?

Lei sì è sposato solo nel 2006, con Pia de’Tolomei (che ha 36 anni meno di lei).

Pia è un angelo, anche se di sé pensa tutto il contrario. E comunque mi sono sposato perché lei me l’ha chiesto.

Le altre non gliel’avevano chiesto?

Come no? Tutte.

E la sua Anna? Ha voluto accompagnarla fino alla fine (ndr: Anna Proclemer è morta il 25 aprile 2013), anche se non stavate insieme da molti anni.

Anna è stata un grandissimo amore. C’era l’eros, c’era il sentimento, ma c’era qualcosa di più: una grande affinità elettiva. Insieme creavamo un mondo. Abbiamo fatto anche una strada professionale molto forte. Eravamo imbattibili insieme sulla scena. E poi la villa insieme, gli animali, i gruppi esoterici, c’era un sacco di roba che ci legava.

Casanova più di Don Giovanni?

Certo. Riconosco il fatto che Don Giovanni sia un grande personaggio, ma è astratto. La sfida di Don Giovanni è Dio. La scena saliente è quella con il povero che gli chiede l’elemosina e lui dice: ti do i soldi ma devi bestemmiare!... Io l’ho fatto in televisione, non in teatro. Ma lo vivo con distacco. Casanova, invece ama le donne, vuole essere amato, è sconfitto spesso, fa cilecca. Ed è un grande scrittore, uno dei più grandi epistolaristi. E’ scappato dai Piombi, basta dire questo…

Il suo camerino, Albertazzi, è sempre pieno di signore.

Le signore mi vogliono baciare. E io spesso chiedo: ma perché mi volete baciare? L’altra sera una bellissima donna che non avrà avuto più di 60 anni è venuta qui e mi ha detto: «Io vorrei spogliarmi nuda davanti a lei».  Di fronte a questa curiosa dichiarazione, io ho dato due  risposte una più stupida dell’altra. La prima è stata: «Grazie». E la seconda: «Vedremo!».

L’ho sentita prima parlare bene di alcuni suoi colleghi, Orsini, Mauri. In teatro, non lo fa nessuno.

Non ho forme di gelosia professionale, forse perché non ho avuto mai tante difficoltà ad essere riconosciuto nel mio lavoro. Non sono competitivo. E tendo a conservare buoni rapporti con tutti. Anche con le mie ex donne. Stasera verranno a vedermi a teatro sia  Mariangela D’Abbraccio che Elisabetta Pozzi.

Una volta ha detto che la morte l’affascina.

Della morte mi affascina l’umorismo.

Cosa c’è di umoristico nel morire?

Se la morte non fosse accompagnata troppo spesso dal dolore fisico, dalla sofferenza, sarebbe sopportabile. Io la trova assurda, e quindi umoristica.

Anna le chiese di aiutarla a morire?

Sì. Mi diceva: «Giorgio, aiutami a morire». Io tentavo di fare lo spiritoso e dicevo: «Anna, aspetta, facciamo insieme». Lei non ha sopportato proprio la sua decadenza fisica, anche se questa sua decadenza era molto relativa. Conservava la bellezza nel viso. Però certo non camminava come prima, aveva sempre sonno, non poteva più recitare. Avevo tentato di coinvolgerla negli ultimi anni, ma lei non se la sentiva. In questo non la riconoscevo. Nei tanti anni di vita insieme, non si era mai sottratta a nessuno spettacolo. Ma poi è subentrata la paura. Ho delle fotografie di Anna in cui è di una bellezza incredibile! Lo ripeto, è stata una bellissima storia. Anche se penso di averla fatta più soffrire che altro. E’ una cosa che penso sempre di me.

E’ così che si vede?

Io penso di essere sempre stato inadeguato, nella vita privata. Se va a domandare a loro, alle donne, negano. Nessuna ha mai detto: «Maledetto il giorno che ti ho incontrato». Invece, hanno sempre detto: «Benedetto il giorno che ti ho incontrato». Questo per quel che riguarda le donne, ma in generale, io non so come mai gli altri mi vedano come un uomo profondo. Io sarò anche profondo in certe circostanze, ma mi riconosco una grande superficialità di fondo. Io non vado mai per dritto, vado per orizzontale, passo da una cosa all’altra senza neanche accorgermene. Con le donne, faccio come il principe Myskin di Dostoevskij, che apprezza la bellezza di tutte. L’uomo, gli altri uomini, non sono così. Io sono così.

Ne è sicuro?

No, non ne sono sicuro.

sabato 23 maggio 2015

Eduardo De Filippo, uomo della ricostruzione

 

Nel corso di una intervista televisiva, Eduardo disse che avrebbe potuto fare solo quello che ha fatto, cioè l’attore. Ma tra la domanda («Che cos’altro avrebbe potuto fare, maestro, nella vita?») e la risposta, c’è una lunga pausa. Eduardo cerca dentro di sé e non trova altro che l’immagine dell’attore. Un altro uomo, nella sua posizione, magari avrebbe detto (e se non l’avesse detto l’avrebbe sicuramente pensato): ma io non sono solo questo, io sono un drammaturgo, uno scrittore,un intellettuale, un pedagogo, un professore, un senatore, che vi credete… E invece no. De Filippo ci pensò pure ma alla fine disse: io avrei potuto fare solo l’attore. Guardando in anteprima il documentario dedicato ad Eduardo, Eduardo e il 900 firmato da Antonella Ottai e Paola Quarenghi, regia di Marco Odetti, che andrà in onda domenica 24 maggio alle 22 su Rai5 – un omaggio molto ben documentato e ricco di materiali inediti al grande artista nato nel 1900 e morto nel 1984 – emergono in primo piano i tanti volti di Eduardo, in particolare quelli allacciati alla vocazione sociale e politica. Che Pasolini abbia fatto da coscienza critica di questo Paese è cosa ormai riconosciuta, ma pochi pensano a De Filippo come intellettuale. Il merito di quest’opera storica che percorre il Novecento sta allora proprio nel mostrare il lavoro paziente, rigoroso, utopistico, che De Filippo fece per questo Paese, non solo attraverso l’impegno drammaturgico e scenico, ma anche fuori dal teatro. Eduardo fu, da Napoli milionaria fino agli ultimi anni della sua vita (quando rese più che sensata la sua carica di senatore, o nel momento in cui accettò in vecchiaia il ruolo didattico al Centro Teatro Ateneo di Roma), un uomo della ricostruzione. Perché l’Italia, non solo alla fine della seconda guerramondiale,  ma continuamente, ha avuto bisogno di essere costruita e ricostruita: parliamo di un Paese che nella sua democrazia imperfetta ha sempre lasciato indietro qualcuno. Ed era proprio questo qualcuno o qualcosa  rimasto fuori dalla storia che interessava a De Filippo, come dimostrano molti suoi gesti: dalla ricostruzione del Teatro San Ferdinando ridotto a macerie al lavoro per i ragazzi del carcere minorile di Nisida. Tutto partiva dal fatto che aveva imparato il mestiere interpretandolo come un lavoro duro, quasi sacro: il padre Scarpetta lo inchiodava alla sedia e gli faceva ricopiare per ore dialoghi delle sue commedie e testi di altri scrittori. Eduardo non si percepiva proprio come intellettuale, ma lo era profondamente: perché che cos’altro dovrebbe fare un intellettuale se non stare vicino alla strada, a chi non ha nulla o l’ha perso? Lui aveva quasi soggezione del mondo accademico. Lo si vede dalla reazione emozionata e tenera che ebbe al conferimento della laura honoris causa in tarda età, o dal modo quasi timido con cui raccontava del suo incontro con Pirandello, lo scrittore premio Nobel. Ma di Pasolini, invece, diceva: «Era adorabile, indifeso». Ecco, alla fine della visione di questo bel documentario, dopo essere stati a lungo con il suo volto antico e aver ascoltato i pieni e i vuoti di un discorso teatrale lungo un secolo, dopo aver scrutato il modo in cui ha consegnato l’eredità artistica all’amatissimo figlio Luca, ci viene da dire un po’ la stessa cosa: «Eduardo era adorabile, indifeso».
(pubblicato sul Garantista) 

mercoledì 13 maggio 2015

Cannes, Catherine Deneuve che piange, immagine intangibile del cinema puro


Catherine Deneuve che si tiene il volto tra le mani e piange. E’ l’immagine che inaugura, nella sua intangibilità, la 68ma edizione del festival di Cannes. Tutte le didascalie del mondo non potranno prendere il posto di quella foto. Si può soltanto scrivere: "Catherine Deneuve, Festival di Cannes 2015”. La diva è stata accolta con un affetto fragoroso. Apparentemente, lei non ha trattenuto la commozione e ha abbassato il viso. Il rosso delle unghie raddoppia il rosso del disegno al centro del vestito. Tutte le altre immagini la mostrano sorridente, ma non troppo, altera, ma con misura, elegante, eppure a suo modo semplice, il volto riconoscibile solo un po’ più tondo, il "suo" volto, quello che ci ha fatto amare il cinema francese e che ha fatto sognare anche gli italiani, per via della sua storia d’amore con un altro divo, il nostro Marcello Mastroianni (dalla cui unione è nata Chiara Mastroianni). I giornali titolo: «L’ultima diva». Il festival ha il suo battesimo di nota antica.
Catherine, che è quasi coetanea della kermesse (il festival è nato 68 anni fa, e lei di anni ne ha 71), rappresenta il cinema in sé. Nessuno si stupirebbe se la diva non dicesse neanche una parola. Ancora qualcuno si chiede se sia vera o no. Ma quella fotografia, insieme a tante altre dichiarazioni dell'attrice, fanno pensare che Catherine Deneuve non solo sia vera, ma che ad ogni suo movimento, dentro o fuori scena, indichi proprio la bellezza di quel cinema che esalta il reale.
Qualche giorno fa, intervistata da "Le Monde", aveva detto: «Non ci sono più star in Francia». Ma non l’aveva detto con il tono di dire: non ci sono più gli intoccabili. Al contrario, aveva insititito sulla bellezza, sulla sua non riproducibilità, per cui ogni persona che fa opere belle diventa in qualche modo un’opera d’arte in sé. «Una star è una persona che dovrebbe farsi vedere poco. Quando non lavora, quando non pensa alla sua arte, dovrebbe restarsene in posizione discreta, riservata. Con l’era digitale assistiamo a una intrusione ossesiva nelle vite degli altri, ad una sovra-esposizione. A causa di Twitter e  Facebook, ci sono molte persone famose, che hanno milioni di follower, e che non hanno fatto assolutamente niente nella loro vita».
Prima di arrivare a Cannes, l’attrrice francese aveva dichiarato: «Il festival un tempo era molto prestigioso, ora lo è molto di meno. E’ ancora una sfida per gli attori: arrivi alla fine del tappeto rosso, devi affrontare le scale e i fotografi. Finisce presto, però, sei regina dalle sette a mezzanotte».
Poi Catherine è arrivata a Cannes, ha sentito il lungo applauso del pubblico, tutto quel calore forse inaspettato, e ha abbassato il viso. La foto trattiene quel movimento, e quel silenzio. Che può significare moltissime cose: la pura emozione in risposta al calore del pubblico. Ma può anche segnare la gioia dell’essere ancora presenti, vivi, con un’opera viva. Il cinema d’autore non è un lontano ricordo. E le grandi attrici rimangono grandi attrici, soprattutto quando si mettono al servizio dell’arte di chi ancora oggi sperimenta, cerca, e si sforza di conficcarsi, come diceva Majakovskij, «nel cranio del mondo».
Catherine Deneuve è l’attrice protagonista del film con cui è stata inaugurata ieri la 68ma edizione del festival di Cannes, "La Tête haute" (A testa alta) di Emmanuelle Bercot, dove interpreta il ruolo di un giudice minorile che per lunghi dieci anni segue la sorte di  Malopny (Rod Paradot), un ragazzo deragliato a causa dell’assenza della famiglia e delle strutture sociali, che finirà col commetterre atti criminosi.
Dal canto suo, Bercot, l’attrice/regista che "Le monde" ha soprannominato "l’eterna adolescente” (in realtà ha 48 anni), appena arrivata sulla Croisette aveva detto:  «Qui si ha la sensazione di far parte di una grande famiglia, di essere riconosciuti. È come sentirsi investiti da un senso di legittimità che invece non riscontri sempre al di fuori del Festival (ndr., che ha ospitato spesso i film da lei interpretati e diretti, ad iniziare dal cortometraggio "Les vacances", premiato anni fa proprio sulla Croisette).
«Ci sono voluti anni per realizzare il film, che nasce da un lungo processo di indagine e di lavoro sul campo. Ho trascorso molte settimane al tribunale per minorenni di Parigi, negli uffici dei giudici, ho visitato molti centri di recupero, immergendomi completamente in queste realtà che ho poi cercato di raccontare nel film - continua Bercot - Mi ha colpito molto la dedizione e la pazienza del personale chiamato a lavorare con e per questi ragazzi. La rivelazione è stata proprio questa, il prendere coscienza di quale mole di lavoro e abnegazione sia necessaria per affrontare il problema della delinquenza giovanile».
L’edizione 2015 del festival di Cannes sarà anche ricordata per "l’anno di Charlie Hebdo". Sono passati solo quattro mesi infatti dalla strage della redazione del settimale parigino (7 gennaio). «Mi ha colpito il fatto che i terroristi di Charlie Hebdo - conclude la regista - avessero avuto dei percorsi di infanzia simili a Malony, con passaggi in centri detentivi e assenza di percorso educativo. L’educazione è un diritto di ogni bambino».
(Pubblicato sul Garantista)

domenica 3 maggio 2015

Le favole sono vere: uno scrittore di 40 anni alla guida del Piccolo Teatro di Milano


 ll drammaturgo Stefano Massini è stato nominato nuovo consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, ereditando così il ruolo che fu di Ronconi, e prima ancora di Strehler. Il primo pensiero è: sarà un refuso, un lapsus? Scartata questa possibilità, ci viene in mente una seconda idea: il genere "romance" può tornare di moda. La notizia è rilevante. Innanzitutto, in contrasto con una ferrea tradizione che vuole registi o organizzatori alla guida degli stabili italiani, questa volta la scelta è caduta su uno scrittore, anzi su un drammaturgo, che di questi tempi i drammaturghi non solo non vanno in tv ma a malapena sono tollerati, perché sembra difficile spiegare che cosa facciano nella vita. Nel caso particolare, Massini non vive neanche in una metropoli, non va alle cene importanti, non vede gente che potrebbe servirgli per il suo lavoro. Lui vive nella campagna toscana con la sua fidanzata e il cane Brownie, in un posto in cui la linea telefonica va e viene e dove d’inverno fa un freddo becco. E’ da quasi vent’anni che scrive opere per il teatro, ha avuto numerosi premi per le sue idee, ma il successo-successo è arrivato inaspettatamente, grazie alla "Lehman Trilogy", architettonica opera sulla fine di un’epoca che ha per protagonisti gli uomini della banca Lehman, ascesa e caduta di una dinastia di ebrei tedeschi trapiantati in America. Pubblicata da Einaudi, tradotta e messa in scena in varie parti d’Europa, la trilogia era stata amata da Luca Ronconi, per il quale Massini aveva fatto quello che si chiama il lavoro di dramaturg. Il grande regista è morto (ndr.il 21 febbraio) mentre lo spettacolo era ancora in scena al Piccolo. E ci piace immaginare che in quei mesi febbrili di lavoro comune le qualità umane e intellettuali di Massini siano state talmente chiare che, al momento di scegliere il successore di Ronconi, il direttore Escobar e il cda del Piccolo abbiano seriamente pensato ad una successione di tipo “sentimentale”, che non c’entrasse niente ma proprio niente con la politica. Del maestro ottantenne, Massini (che di anni ne ha 40) ci aveva detto: «E’ il più giovane sperimentatore della scena che io abbia mai conosciuto». 
Sarebbe oggi quasi un po’ conformista dire che la città di Firenze non si è accorta del talento che aveva in casa. Questo semmai è un corollario, un incidente. La storia di Stefano Massini al Piccolo è, piuttosto, una piccola favola che dà speranza non tanto a chi lavora nel settore (l’antipatico e un po’ repellente “lavoro culturale” dal quale ci metteva in guardia Luciano Bianciardi), quanto a chi crede fortemente in una idea di mondo che non sia cinico, spietato e accondiscendente, a chi coltiva la propria arte per il gusto dell’arte stessa e non per farne vanto in giro. Nella nostra lunga conversazione/intervista pubblicata su questo stesso giornale (il 25 gennaio), Massini ci diceva: «Io non sopporto la bassezza, l’ipocrisia, tutto ciò che è piccola manovra, soprattutto quando vedo queste caratteristiche nelle persone che si occupano di arte. Ma siccome il 99, 9 per cento delle persone che fanno arte alla fine si rivelano bestie capaci di qualunque meschinità, allora io preferisco una meravigliosa dorata solitudine». Sono passati solo tre mesi. Allo scrittore che viveva in solitudine è arrivata all’improvviso una telefonata: «Scusi, Massini, dirigerebbe il Piccolo?». Sembra uno scherzo. Invece è l’inizio di un romanzo che vale la pena leggere. Naturalmente l’impegno a cui è chiamato è gigantesco, ed è molto diverso dal mestiere del drammaturgo: non saranno tutti fiori. Ma se dobbiamo leggere le cose dal prologo, quest’inizio ci sembra indicare un sintomo rivelatorio di una vena più libera che esce fuori dal tessuto molle di questa nostra epoca. Magari qualcosa sarà sfuggito all’ingranaggio, forse qualcuno si era distratto, impegnato a trafficare, lamentarsi e inveire contro “il sistema”. Ma su quel treno Firenze-Milano Massini ci è salito veramente. Non sappiamo con esattezza tutto quello che ha messo in valigia. Di sicuro è riuscito a farci entrare quanti più libri poteva. (articolo pubblicato sul Garantista)

sabato 18 aprile 2015

Il disarmo nucleare? Parte da noi



Il pacifismo sembra passato di moda. E la parola ”pace” si incolla ormai solo all’attaccapanni dei Nobel: rispettabilissimi ma svuotabili facilmente di senso, quando a quelle onorificenze non si accompagnano azioni per la pace. (Che poi ti chiedi: a quanta gente hanno dato il Nobel per la Pace? Ma saranno tutti veramente pacifisti questi signori?). La parola ”guerra”, al contrario, gode di ottima salute. Non solo “la” guerra, ma i suoni che la nominano: war, guerre, krieg… Le immagini dei corpi massacrati in Yemen, Nigeria, Kenya, Iraq, Siria, Messico, Ucraina,  i morti nella redazione di ”Charlie Hebdo” a Parigi, per dire solo alcuni delle epicentri delle violenze degli ultimi tempi. La fotografia degli studenti presi dall’alto, cadaveri accatastati e brutalmente lasciati lì,ad essiccare sotto un sole che ha perso la luce, ha fatto il giro dei social network. Qualcuno si è sottratto, come la scrittrice Igiaba Scego, che si è rifiutata di diffonderla e ha pubblicato invece, al suo posto, "Il trionfo della morte" di Bruegel. Le parole di distruzione sovrastano quelle di vita in una misura inaccettabile. E’ una storia lunga, che tutti i più grandi scrittori, da Dante a Dostoevskij a Roth, ci hanno raccontato: il male trova  a volte forme più seducenti con cui plasmare l’immaginario e farsi strada nella vita. Eppure, lo diceva a chiare lettere Hannah Arendt, «solo il bene è radicale», perché il male può al massimo essere «estremo». Queste parole  riaffiorano alla memoria mentre ci immergiamo nelle atmosfere della grande mostra “Senzatomica” organizzata dall’Istituto Buddista Italiano (Soka Gakkai): dopo esser stata ospitata in varie città d’Italia, adesso è a Roma: al Macro Pelanda fino al 26 aprile.
Un cammino che ciascun visitatore può fare a suo modo. Assecondando un ordine logico del discorso, ma anche uno emotivo, sensoriale. Sul piano sonoro, ci sono diverse linee che si inseguono: la simulazione del lancio della bomba atomica a Hiroshima, un rumore fragoroso, assurdo, che fa ancora tremare i polsi. Ma ci sono anche le tante voci delle guide che raccontano le tappe della costruzione della bomba atomica, i tentativi di accordi di pace e i rischi attuali, in un modo differente: «Il disarmo parte da noi». (Sono i membri dell’Istituto buddista che, muovendo dalla sacralità della vita, pone la questione del disarmo tra i suoi principi fondatori). 
Se ci fermiamo, nel padiglione centrale, veniamo calamitati dalle testimonianze (in giapponese, con sottotitoli) delle hibakusha, ”coloro che sono state colpite dal bombardamento”. Alcune sono molto anziane. Altre sono figlie e nipoti di quelle donne che subirono gli effetti devastanti di Hiroshima e Nagasaki.  «Mio figlio giaceva privo di sensi. Tutto quel sangue. sembrava morto». C’è l’immagine di una strada cosparsa di vetri rotti che s conficcano nelle scarpe. Morti che sono ancora vivi ma che saranno costretti a sopravvivere con visi sfigurati, leucemie inguaribili. «Mi sanguinavano le gengive. I capelli mi cadevano a fiocchi». E ancora:  «Ogni giorno si cremava qualche nuovo corpo. Ma bisognava sopravvivere». 
Già, come sopravvivere? C’è una nota che accomuna queste testimonianze, ed è la volontà di superare la vista della morte e di lottare per la conoscenza. Sono quasi tutte donne che hanno visto morire padri madri fratelli figli e che nonostante questo sono andate a parlare alle Nazioni Unite, che hanno fatto della propria stessa vita un’arma potente. Eccole, le parole «radicali» del bene.
Le parole «estreme» del male, invece, si edificano sulla menzogna ma sono dure a morire. «Si è pensato che l’impiego di queste armi fosse un ”male necessario” per mettere subito fine alla guerra senza sacrificare ancora migliaia di soldati americani. Le cose, invece, andarono in modo diverso - scrive B.Liddel Hart ne ”La seconda guerra mondiale”, testo riportato in mostra - Il 20 giugno del 1945 l’imperatore del Giappone convocò un consiglio di ministri a cui chiese di porre fine alla guerra il più presto possibile. Si decise allora di inviare il principe Konoye a Mosca con lo scopo di assicurarsi la pace ”a qualsiasi costo”. Ma gli americani intercettarono quanto stava succedendo e realizzarono che per loro la situazione non era affatto conveniente...Il problema di Truman non era affatto mettere fine alla guerra il più presto possibile, ma di evitare che intervenisse per prima l’Urss e avanzasse rivendicazioni in Medio Oriente...Lo scopo non era di risparmiare la vita a tanti soldati americani, ma il desiderio di dominio e di potere».
”Senzatomica” registra i passi fondamentali della storia della bomba atomica, gli effetti di Hiroshima e Nagasaki, insistendo sulla ”sicurezza umana”. Con un focus sull’Italia che «come paese membro della Nato, ospita  sul proprio territorio bombe nucleari statunitensi B61, 900 volte più potenti di quelle di Hiroshima, al cui uso vengono addestrati anche i piloti italiani». 
Ma quello che è più importante è lo spirito che anima questa grande mostra sul disarmo. Uno spazio significativo viene riservato a figure come Nelson Mandela, «che ebbe il coraggio di dialogare profondamente con il proprio avversario e di arrivare a inaspettate riconciliazioni» e Daisaku Ikeda, attuale presidente della Soka Gakkai, un uomo che sui dialoghi di pace ha costruito la sua esistenza e la sua missione nel mondo: dal 1983 invia ogni anno all’Onu una Proposta di Pace che contiene possibili soluzioni ai problemi globali del pianeta. 
Di campagne per il Disarmo ne sono state fatte, e la lotta non si ferma certo qui. Ma quello che “Senzatomica” ci fa comprendere è che il mostro non sempre fuori di noi. Che complicità, interessi, avidità, ipocrisia, guerra per il potere, sono strategie umane di sopravvivenza. E che queste strategie trovano modi estremi e  sempre più sottilmente crudeli per affermarsi. Per questo il disarmo è, prima di tutto, interiore. Con sé porta parole radicali e inequivocabili. Le parole ”concrete” del bene. «Il Summit G8 del 2016 avrà luogo in Giappone: in parallelo potrebbe svolgersi un summit allargato dedicato alla realizzazione di un mondo senza armi nucleari, che fornirebbe la sede opportuna per impegnarsi pubblicamente per una sottoscrizione di tale accordo in tempi brevi - scrive Ikeda - La mia seconda proposta concreta è di utilizzare il processo che si sta sviluppando intorno alle Dichiarazioni congiunte sull’impatto umanitario dell’uso di armi nucleari per coinvolgere ampiamente l’opinione pubblica internazionale e attivare negoziazioni. È importante ricordare che un accordo sul non uso non è altro che una testa di ponte verso il nostro ultimo obiettivo - la proibizione e l’abolizione delle armi nucleari - che potrà essere raggiunto solo grazie a un’accelerazione dell’impegno in tal senso, spinta dalle voci unite della società civile globale».
(Pubblicato sul "Garantista")

sabato 21 marzo 2015

Peter Brook, 90 anni di ininterrotto stupore




Peter Brook ha compiuto 90 anni. E mentre scriviamo questa semplice frase, ci accorgiamo che non si accompagna al pensiero automatico: andiamo a vederlo, a sentirlo, prima che sia troppo tardi. Non perché questo non possa essere un desiderio legittimo, ma perché da tempo il regista inglese – naturalizzato francese - ci ha abituato a pensare che la vecchiaia è una pura convenzione, che fino all’ultimo momento della vita si può aprire una finestra sul futuro. E che persino la morte, in fondo, fa parte del ciclo naturale delle cose. Della vita in sé, Brook ha tenuto sempre grandissimo conto. Al punto da considerare il teatro stesso come una affermazione della sacralità degli esseri viventi: «La prima qualità di uno spettacolo è la sua vitalità; la seconda, nella sua immediata comprensibilità». Pacifista, fiero oppositore di ogni forma di guerra e di sopraffazione, Peter Brook è nato il 21 marzo del 1925 a Londra da un padre russo costretto ad emigrare dal suo paese come dissidente politico. Cominciò a lavorare subito in teatro, diventando a soli 20 anni il direttore del Covent Garden. Ed è del 1955 lo spettacolo che ha richiamato l’attenzione internazionale, quel “Tito Andronico” in cui per la prima volta il palcoscenico si rivelava come “spazio vuoto”, un luogo in cui far incontrare su una linea immaginaria, una corda tesa, lo sguardo di attore e spettatore: poiché senza colui che assiste nulla può accadere. 
«Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale» scriverà qualche anno più tardi, nel 1968, in  “The empty space”, un libro che tuttora rimane una bussola non solo per chi si avvicina professionalmente al teatro ma anche per chi considera il dispositivo scenico come una forma ancestrale, e immediata di conoscenza. 
Dal 1970 Peter Brook vive a Parigi. Nel 1974 ha riaperto quel bellissimo teatro che è  Les Bouffes du Nord, motore creativo della scena europea, che era rimasto chiuso dal 1946, e di cui sarebbe stato il direttore artistico fino al 2010. « Tutto intorno non c’era niente…Il teatro era là, bruciacchiato, macchiato dalla pioggia, tappezzato di buchi, e tuttavia nobile, umano, rosso incandescente, bellissimo: Les Bouffes du Nord» (questo il ricordo del primo sguardo).  
Come opera d’inaugurazione, scelse “Timone d’Atene”, nell’adattamento di Jean Claude Carrière. Ancora una volta Shakespeare. Non è stato ovviamente l’unico autore frequentato dal maestro inglese (il “Marat/Sade” di Peter Weiss  nel 1964,  “The conference of the birds” di Farid ad-din Attar del 1979, il “Mahabharata”, vera esperienza epica datata 1985, segnano, solo per fare alcuni esempi, tre tappe fondamentali del suo teatro) eppure la scrittura shakespeariana è stata la vera compagna di vita di Brook. In un altro importante libro, “The shifting point” (traduzione italiana, “Il punto in movimento”), che raccoglie scritti dal 1946 al 1947, cominciava così uno dei capitoli: «Shakespeare non è una noia»: alludeva a decenni di messe in scena sepolcrali. E molti anni più tardi avrebbe scritto un altro libro intitolato “La qualità del perdono, riflessioni su Shakespeare”. 
«Le opere di Shekespeare hanno questa caratteristica: non vi è interpretazione, ma la cosa in sé» dichiara. 
Tutta l’opera di Brook segue questa legge misteriosa. Sia che faccia Shakespeare sia che si avvicini ad altro, all’Africa  - altro grande territorio frequentato tutta la vita da Brook, sia nella scelta degli attori che dei testi - o all’Oriente.  Non è mai interpretazione. E’ “la cosa in sé”. E’ per questo che, anche in Italia, i teatri che hanno ospitato i suoi spettacoli hanno accolto spettatori di tutte le età, anche giovanissimi, che magari non sanno niente di Brook ma sono attratti dalla verità e dalla semplicità delle sue opere, che nascono da una concezione non autoritaria della regia intesa come pura opera di “distillazione” (un’idea che condivide con Ermanno Olmi, suo grande amico).
Nel 2011, il regista inglese aveva annunciato l’addio alle scene. Ci precipitammo al Teatro Argentina di Roma, dove veniva rappresentata una sua rilettura del  “Flauto magico”, opera di «magica fragilità» - come l’aveva definita il critico e storico Georges Banu-, in cui l’unione di Tamino e Pamina veniva letta attraverso lo sguardo di un vecchio/bambino che costruisce sulla sabbia la sua idea di città fondata sull’amore. Un movimento leggero d’ala, un umanissimo incantesimo. Che in realtà non era un addio. In questi ultimi anni, Peter Brook si è dedicato al mistero del cervello umano, realizzando nel 2014 “The valley of astonishment”, un’opera sulle tante forme di sinestesia (più di 150)  che parte dall’osservazione di una creatura la cui malattia non indica un deficit, ma una qualità umana più raffinata. Il buffo personaggio di Sammy, interpretato dalla bravissima Kathryn Hunter (la stessa attrice che recitava “Fragments”, spettacolo che è arrivato con successo anche in Italia, mostrandoci un aspetto ironico della scrittura beckettiana, che in genere viene invece affrontata in modo nero e dogmatico), ha una memoria eccezionale e di se stessa dice: «Sono un fenomeno».  Non è la prima volta che Brook si interessa alla mente di soggetti neurologicamente sofferenti, lo fece già con “The Man Who” (spettacolo del 1993) ispirato all’opera di Oliver Sacks. «Il teatro esiste per stupirci e per combinare due opposti elementi, il familiare e lo straordinario –  ha spiegato il grande regista, che non vuole essere chiamato maestro – E’ per questo che mi sono avventurato nei segreti del cervello umano. L’ho fatto tanti anni fa con “The man who”. E stavolta, percorrendo le montagne e le valli del cervello umano, siamo arrivati nella sesta valle, quella dello stupore.  I nostri piedi sono incollati al terreno, ma passo dopo passo  penetriamo sempre di più dentro lo sconosciuto».
Passo dopo passo. Gesto dopo gesto. Stupore dopo stupore. Oggi, dall’alba dei suoi 90 anni, Brook guarda oltre di sé e tende qualche nuova corda. Per aiutarci a ricordarci come è fatto un uomo e quale meraviglioso mistero egli abiti. «La corda tesa è l’immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro. Per mantenere l’equilibrio, un funambolo deve tener conto di due cose: avere ben presente il punto d’arrivo e al tempo stesso badare ai lati. Oscillare senza mai perdere la meta. Altrimenti cade. Vale nel teatro come nella vita».
  (pubblicato su "Il Garantista")     

mercoledì 4 marzo 2015

Georgia, l'atroce storia di Kelly Gissendaner nel braccio della morte


Kelly stava aspettando nella sua cella che la venissero a chiamare. Mancavano solo quattro ore al momento fissato per la sua esecuzione. Quando è arrivato un contrordine. No, Kelly non deve morire. Non ora, almeno. Perché non è sicuro che i farmaci che verranno utilizzati per l’iniezione fatale siano veramente mortali. Stato della Georgia, 2 marzo 2015. E’ la seconda volta che l’esecuzione di Kelly Gissendaner viene rinviata. Ma non perché le sia stata risparmiata la vita, al contrario, perché non è abbastanza sicuro che lei morirà subito. Nel primo caso, c’entrava il maltempo. Pare che con tuoni e lampi non si uccide nessuno. 
Le autorità del carcere in cui la donna è rinchiusa chiamano «cautela» l’accurata verifica della potenza del veleno. Se pensiamo in effetti a quello che è accaduto a Clayton Lockett in Oklahoma, alla sua terribile agonia durata interminabili 43 minuti (alla fine è morto per un attacco di cuore), è giusto che ci sia un eccesso di «cautela». Eppure questa morte continuamente interrotta e differita porta in sé una differente crudeltà sulla quale non possiamo non soffermarci. Kelly Gissendaner, che oggi ha 46 anni, sarebbe la prima donna ad essere giustiziata in Georgia negli ultimi 70 anni (nello stato americano la pena capitale è stata reintrodotta nel 1976). 

Tutte le testimonianze raccolte dai suoi legali hanno disegnato con una certa sicurezza lo scenario dell’omicidio: non è stata lei ad uccidere il marito Douglas, per la cui morte paga con una condanna alla pena capitale. L’esecutore materiale dell’assassinio è stato il suo amante di allora, Gregory Bruce Owen, che pattuì una condanna all’ergastolo (ma in realtà uscirà di cella tra 8 anni) dando tutta la colpa alla donna. Strana, tremenda storia, quella di Kelly Gissendaner, madre di tre figli, la cui sorte ha mobilitato migliaia di attivisti e religiosi (in carcere Kelly ha abbracciato la fede cristiana). Inutilmente. Qualcuno, qui, doveva pur pagare morire, e a morire sarebbe stata lei. Questo sembra essere il ragionamento che sta dietro la decisione del Georgia Department of Correction. L’ultima parola non però è ancora detta perché le due “interruzioni” dell’esecuzione fatale potrebbero giovare alla donna condannata, poiché si è in attesa della risposta della Corte Suprema degli Stati Uniti all’appello presentato in extremis dai legali della Gissendaner. E se alla fine ce la facesse? Forse Kelly non deve morire, ma in queste ore la donna sa soltanto di essere sopravvissuta ad una agonia inumana, senza che questo abbia significato per lei una restituzione della vita. I fatti per i quali la donna è condannata risalgono al 1997. E proprio non si comprende questo accanimento nei confronti di Kelly Gissendaner, che ha mostrato di non essere in nessun modo pericolosa. Eppure dovrebbe esser servita la lezione di Lena Baker, l’ultima donna condannata a morte in Georgia. Era 1945. Lena era una cameriera afro-americana condannata da una giuria di uomini bianchi per aver ucciso un uomo che la teneva prigioniera con ricatti e minacce fisiche. In quell’epoca, una donna afro-americana era all’ultimo livello della scala sociale. Che cosa poteva valere la sua parola nella società degli uomini? La sua condanna a morte venne eseguita senza troppi sforzi. Ma siccome la Georgia è dotata anche di una Commissione per la Grazia, è stata questa a riaprire il caso nel 2004  e a conferire ”la grazia postuma” a Lena Baker. Con la motivazione: «Fu commesso un errore molto grave». Sessant’anni per riabilitare un’anima. Dobbiamo aspettare che anche Kelly Gissendaner muoia, in uno Stato che non condanna mai le sue donne alla pena capitale (mentre dal 1976 gli uomini che hanno pagato con la vita sono stati 1.400), e che ha già «commesso un grave errore» nel passato, per attendere tra qualche decennio una grazia postuma? No, Kelly non deve morire.        
(Pubblicato sul "Garantista")